Ray Banhoff? Come mai questo pseudonimo…”straniero”?
Non voglio fare lo strambo ma dietro al nome Ray Banhoff c’è una cosa che Jodorowsky definirebbe “psicomagica”.
Io sono nato Gianluca Gliori.
Il mio cognome non lo ha mai saputo pronunciare nessuno, nemmeno io.
Tutti hanno sempre storpiato il mio nome e da bambino mi faceva soffrire un sacco.
Gianluca era pieno di insicurezze, menate, paranoie varie.
Il mio lato creativo non era sostenibile per Gianluca, era troppo impegnativo.
Mi serviva di diventare una versione potenziata di me.
Più coraggioso, più esotico.
Ray Banhoff è venuto per caso, come nickname su MySpace.
Ray Banhoff era vero e proprio un alter ego, l’ho accolto ed è rimasto il nome con cui firmo tutti i miei lavori.
Pensa che fino a qualche anno fa dicevo a tutti che ero rumeno, che mia madre faceva la ballerina e ho pure firmato dei contratti con quel nome.
Oggi Gianluca Gliori e Ray Banhoff hanno fatto pace, si sono aiutati, ma rimango Ray quando scatto.
Come ti sei avvicinato alla fotografia? E perché?
Non sapevo che lo stavo facendo, mi ci sono trovato dentro.
Io scrivo.
Mi serviva un mezzo ancora più veloce della scrittura e credo che solo l’occhio potesse darmi quella sensazione.
Ho avuto una carriera fallimentare come fotografo anni fa perché non sapevo cosa fotografare.
Mi piaceva il linguaggio ma aveva troppe sfumature, troppi tecnicismi (lo studio, la moda, le luci tutti quei casini che un neofita ci affoga).
Mi ha salvato un iPhone che considero come una compatta dei giorni nostri.
Con quello ho iniziato a fotografare cani di piccola taglia, a Milano.
Erano soli ad aspettare i padroni che facevano la spesa e mi ci rispecchiavo; per due anni, solo cani!
Poi ho cominciato a scattare ovunque, non avevo più freni.
Li sono arrivate le donne da cui ho tratto il libro “FIE” con Martina Spagnoli e i vecchi.
Ho scattato per la maggior parte dei miei anni a Milano quella che si è soliti chiamare: “street photography”.
Da tre anni invece faccio quasi esclusivamente ritratti.
Macchina vera, flash etc…
Ti senti più un fotografo, un’autore o un’artista?
Fare solo il fotografo non mi interessa. Io scrivo e scatto, scatto e scrivo.
Mi piacciono le fotografie però. Mi interessa lo strumento e il linguaggio. Fino a che sarà affine a raccontare cosa voglio userò la macchina fotografica.
Di solito considero artisti quelli che raccontano qualcosa.
In Italia sembri un montato se ti definisci un artista ma si, credo di potermelo permettere!
Cosa ti ha spinto a cominciare “Vasco Dentro”?
Vasco Dentro è stata una necessità. Ero in un momento di stallo.
Ero stato licenziato da Radio 105 a Milano dove oltretutto facevo il fotografo e per anni avevo fotografato solo celebrities.
Avevo bisogno di qualcosa di vero, di mio, che raccontasse il riscatto che cercavo.
Ho fatto il primo Vasco per caso su una spighetta in Puglia e tutti quelli dopo solo perché ero pazzo di quei tizi.
Vasco non c’entra niente in questo lavoro, qui il soggetto sono loro.
Vivevano la vita spericolata, cantavano, erano animali notturni, di giorno muratori, disoccupati o carabinieri.
Io ero in down totale non trovavo lavoro e mi piangevo addosso.
Li ammiravo, ammiravo il loro coraggio, il loro vivere sopra ogni regola, il loro fregarsene di apparire strambi, il loro essere “se stessi”.
Li fotografavo per mangiarne un pezzettino, per curarmi.
Che cosa ti ha motivato da decidere di pubblicarci un libro?
Martina è la mia compagna e lavoro con lei. Lei mi è stata accanto in un momento in cui ero a terra, disoccupato, senza idee.
Mi ha sempre guidato nel mio lavoro ed è stata sempre il mio primo confronto. Ha visto il significato di questo lavoro, per me.
Io sono una sorta di ricercatore, di antropologo.
Vasco Dentro è uno studio su cosa è il mito e che cosa rappresenta per la gente.
Io stesso mi sono abbeverato di quel mito e dei miei soggetti per risorgere.
Martina ha capito che l’unico modo per raccontare bene questa storia era farci un libro!
Che cosa hai imparato da quest’esperienza?
Quello che intuivo.
Che bisogna trovare la propria ispirazione e seguirla.
Che bisogna essere se stessi, fare quello che ci fa stare bene, smettere di menarsela per piacere a tutti.
Progetti per il futuro?
Sono tre anni che sempre come Ray Banhoff porto avanti un lavoro monumentale di ritratti. Un lavoro sul carattere italiano.
Sarà il mio lavoro “grosso”, quello della maturità.
Progetti futuri pochi, cerco di volare basso.
Collaboro con Rolling Stone e Write and Roll, e faccio delle Instagram Stories che si chiamano “Bar Degrado” ambientate nei baretti che frequento.
Scatto esclusivamente tutti i soggetti che mi attraggono, li scelgo come un rabdomante.
Per ora, va bene così.