Perché Nomadelfia è un’oasi di fraternità [1] ?
Per capire meglio Nomadelfia è necessario approfondire in primis la storia di Zeno Saltini, il suo fondatore, che durante i suoi studi di giurisprudenza, teologia e filosofia si è intrisa ed è stata influenzata da vari pensatori illustri dei quali è nutrito ed ispirato profondamente.
Don Zeno, presbitero rivoluzionario e figura visionaria quanto controversa per l’epoca, è sempre stato particolarmente vicino ai più deboli e sensibile alla difesa dei loro diritti.
Fonda Nomadelfia sulla base dei principi cristiani della Chiesa cattolica che lui stesso definisce: “la chiesa delle origini”.
La comunità segue quindi i principi fondamentali dell’uguaglianza e degli insegnamenti di Cristo agli apostoli che vivevano insieme fraternamente, partecipavano alla frazione del pane e pregavano insieme… e mettevano in comune tutto quello che possedevano
Senza eguaglianza i diritti si trasformano in privilegi e questi per definizione non generano obblighi morali di rispetto. L’eguaglianza è un principio formale che permette il dialogo e il confronto tra i valori sostanziali a cui si richiamano le varie teorie della giustizia [3].
Tra queste, la giustizia distributiva, concetto probabilmente reso noto da Aristotele nell’Etica Nicomachea e nella Politica, ma sviluppato precedentemente già da Platone nelle Leggi, che ha per oggetto la ripartizione dei vantaggi tra gli individui che partecipano ad uno schema di cooperazione all’interno di una società; le teorie della giustizia, a loro volta, si propongono di definire e valutare le regole che presiedono a tale ripartizione.
“Nomadelfia è una proposta alternativa e concreta di creare una nuova società fondata sulle regole della democrazia diretta e della fraternità”.
Quella attuale infatti, è piena di rancore e di odio. Malgrado ciò esistono oasi di fraternità, dove si coltivano relazioni, si praticano “stili di vita disintossicati dall’individualismo e dal consumismo” [5] che tendono ad opprimere le persone.
È da qui, da queste oasi, che dovremmo ricominciare, per rigenerare la fraternità e farla diventare un valore fondante della nostra convivenza sociale. Da qui e da quei momenti “transitori”, in cui trova spazio: una festa, un incontro, un dialogo.
A tale proposito è interessante approfondire la visione di Edgar Morin sulla fraternità: La libertà, soprattutto economica, tende a distruggere l’uguaglianza, come vediamo oggi con l’espansione di questo liberalismo economico…
Al tempo stesso, imporre l’uguaglianza mette a rischio la libertà. Il problema è, allora, quello di saperle combinare. Ma se si possono scrivere norme che assicurano la libertà o che impongono l’uguaglianza, non è possibile imporre la fraternità tramite la legge.
Morin sostiene che: la fraternità è dentro ognuno di noi e nessuno può imporla dall’esterno. Per questo motivo va coltivata e continuamente rigenerata. Le iniziative personali o comunitarie costituiscono l’embrione di una civiltà votata alla fioritura personale nell’inserimento comunitario.
Una chiara visione di fraternità è: (…) Mutuo appoggio, cooperazione, associazione, unione sono componenti inerenti alla fraternità umana. Ma essa le ingloba, le avvolge all’interno di un calore affettivo.
Se la fraternità familiare comporta il sentimento profondo di una maternità comune, nelle fraternizzazioni extra-familiari, consapevolmente o meno, il riferimento è invece a una maternità ideale o mitica.[7]
Questa visione introduce bene il concetto di “madre per vocazione” adottato a Nomadelfia, dove proprio uno dei capisaldi è l’ospitalità.
Non essere inospitale con gli sconosciuti: potrebbero essere angeli mascherati [8]
aveva scritto all’interno della sua libreria parigina Shakspeare&Co., nata nel 1951 sul terreno di un antico monastero, George Whitman, attribuendo erroneamente la frase al poeta Irlandese Yeats ma parafrasando in realtà la Bibbia [9]. Whitman nella sua libreria ha ospitato in 60 anni circa 40.000 persone!
Le famiglie che compongono Nomadelfia, sebbene con certe regole, sono aperte all’accoglienza verso le persone che vengono dall’esterno, sono formate da figli propri e da figli affidati, minori abbandonati, migranti dispersi o ragazzi provenienti da famiglie esterne con gravi problemi di salute o di comportamento.
Questo modello di grande famiglia proposto da Nomadelfia che ospita altre famiglie e dove tutti sono sullo stesso piano, somiglia molto al concetto nuovo di “società come famiglia” pensata nel 1762 da Rousseau:
La società più antica di tutte e l’unica naturale è quella della famiglia: tuttavia i figli non restano legati al padre se non fino a quando ne hanno bisogno per la loro conservazione.
Non appena tale bisogno cessa, il legame naturale si scioglie. I figli sono liberati dall’obbedienza che dovevano al padre, il padre è sciolto dalle cure che doveva ai figli; tutti rientrano a parità di condizioni nell’indipendenza.
Se costoro continuano a restare uniti, non si tratta più di un’unione naturale, ma di un’unione volontaria; dal che si ricava che la famiglia stessa non si conserva che in base a un accordo. Questa comune libertà è una conseguenza della natura dell’uomo.
La sua prima legge è quella di curare la propria conservazione, le prime cure sono quelle dovute a sé stesso; non appena tale uomo arriva all’età della ragione, essendo egli solo il giudice dei mezzi adatti alla propria conservazione, diventa perciò signore di sé stesso.
La famiglia è dunque, se si vuole, il primo modello delle società politiche: in queste il capo riproduce l’immagine del padre, il popolo quella dei figli, e tutti, essendo nati uguali e liberi, non cedono la loro libertà se non per la loro utilità.
La differenza fondamentale consiste nel fatto che, nella famiglia, l’affetto che il padre porta ai suoi figli ricompensa costui delle cure che egli si prende di loro, mentre, nello stato, il piacere del comando supplisce a questo amore che il capo non ha per i suoi popoli (…) [10]
Altri aspetti utili a sviscerare meglio la complessità di Nomadelfia sono descritti al centro dell’Enciclica “Fratelli Tutti” di Papa Francesco di Settembre 2020 dove si ritrovano come valori fondamentali la fraternità e l’amicizia sociale per essere veramente “fratelli tutti”, come scriveva San Francesco d’Assisi: per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo.[11]
I termini “fratellanza” e “fraternità” tendono ancora ad essere considerati sinonimi mentre in realtà non lo sono, sia nell’etimologia che nella storia ed è bene specificarli.
La fratellanza politica risale allo slogan della Rivoluzione francese del 1789 “Liberté, Egalité, Fraternité” che non si traduce in dispositivi giuridici concreti almeno fino al 1848.
Per di più essa assumerà sfumature nazionalistiche (fratelli erano solo coloro che appartenevano alla stessa nazione o classe sociale).
La fratellanza religiosa si traduce in associazioni come le confraternite formate soprattutto da laici che s’impegnano in opere di carità e soccorso, nella sepoltura dei morti, nella beneficenza per i poveri e gli emarginati.
Anche nelle comunità monastiche, ove è in uso il termine fraternità, si intende un rapporto affettivo, particolare e privilegiato nel condividere lo stesso ideale di vita ma così si confonde l’idea della fraternità con quella della perfezione della amicizia.
Con il marxismo il principio di fratellanza si concretizza in quello di solidarietà all’interno di quelle classi che condividono le difficoltà e gli strumenti di lotta per superarle.
Vale la pena ricordare che per Marx: la comunità reale si fonda su “individui come individui” e su una “libertà reale”. Le nozioni di individuo, classe e comunità si contraddistinguono, come molte categorie marxiane, per un’intrinseca duplicità: pur restando invariato il “nome” (individuo, classe, comunità), si attua una dislocazione decisiva fra le sue due accezioni, vale a dire fra la sua configurazione non del tutto disomogenea rispetto alla struttura sottoposta a critica e il suo carattere dirompente nei confronti di quest’ultima.[12]
La fratellanza universale ricalca l’adelphopoiesis (dal greco “farsi fratelli”) ed è praticata principalmente dalla Chiesa cristiana ortodossa, fa appello alla condizione che accomuna tutti gli uomini che condividono la stessa sorte di vita e di morte e si realizza nella solidarietà verso persone e popoli in particolari difficoltà per malattie, carestie, mancanza d’acqua, malnutrizione. A questo concetto si ispirano molte Organizzazioni non governative come l’UNESCO, la FAO, l’UNICEF, l’OMS, l’ILO, l’UNHCR.
La fraternità invece è un ideale che si fonda sul riconoscimento relazionale che rende superflua la lotta per l’affermazione del sé e si basa per la maggior parte sul dialogo che limita in questo modo la competizione tra gli uni perché fa capire le ragioni dell’altro.
La fraternità non ha vincoli parentali ma valori esistenziali realizzabili solo se si individuano le caratteristiche relazionali affini in grado di contenere le pulsioni di concorrenza, competizione e rivalità che insorgono spontaneamente dall’espressione delle relazioni primitive.
Il modo di concepire la fraternità è infatti esclusivamente relazionale. La comprensione di questa relazione passa attraverso forme di organizzazioni sociali che si basano su trasparenza e chiarezza.
Questo ci riconduce alla visione di Tonnies che individua nel suo pensiero due forme diverse di organizzazione sociale: la comunità (Gemeinschaft) e la società (Gesellschaft). La comunità è un rapporto reciproco sentito dai partecipanti, fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva.
Per Tonnies, la comunità è organica e le sue forme embrionali emergono in seno alla famiglia nei rapporti tra madre e figlio, tra moglie e marito e tra fratelli, per estendersi poi ai rapporti di vicinato e di amicizia.
Tali rapporti sono improntati a intimità, riconoscenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, ricordi ed esperienze comuni. I vincoli di sangue (famiglia e parentela), di luogo (vicinato) e di spirito (amicizia) costituiscono delle totalità organiche – le comunità appunto – in cui gli uomini si sentono uniti in modo permanente da fattori che li rendono simili gli uni agli altri e al cui interno le disuguaglianze possono svilupparsi solo entro certi limiti. Nulla di tutto ciò avviene nell’ambito della società.
Nella società, gli individui vivono per conto loro, separati, in un rapporto di tensione con gli altri e ogni tentativo di entrare nella loro sfera privata viene percepito come un atto ostile di intrusione.
Il rapporto societario tipico è il rapporto di scambio: nello scambio i contraenti non sono mai disposti a dare qualcosa di più rispetto a quel che ricevono; anzi, lo scambio avviene proprio perché ognuno ritiene di ricevere qualcosa che ha un valore maggiore di quello che cede, altrimenti non entrerebbe neppure nel rapporto.
Venditori e compratori sono in rapporto di reciproca competizione, giacché i primi cercano di vendere al prezzo più alto possibile, mentre i secondi cercano di acquistare al prezzo più basso possibile. Il guadagno dell’uno è la perdita dell’altro.
Il rapporto di scambio, poi, non mette in relazione individui nella loro totalità, ma soltanto le loro prestazioni; chi vende non è interessato al compratore come individuo, né all’impiego che questi farà del bene scambiato, ma solo alla sua capacità di pagare il prezzo stabilito.
La comunità per Tonnies deve quindi essere intesa come un organismo vivente, mentre la società come un aggregato e prodotto meccanico. La forma comunitaria, fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea, predomina in epoca pre-industriale, mentre la forma societaria, basata sulla razionalità e sullo scambio, domina nella moderna società industriale.[13]
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Il libro è composto dalle fotografie di:
Enrico Genovesi
e dai contributi testuali di:
• Franco Arminio
• Giovanna Calvenzi
• Sergio Manghi